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grammofono

Quando i comodi arrivarono a Torri

di Paolo Gioffredi

Per secoli la vita di Torri, come quella di tanti paesi della montagna, si è svolta sostanzialmente immutata, cadenzata dal duro lavoro nei campi e nei boschi, dalle migrazioni stagionali, e, sempre, segnata dai sacrifici, dalle privazioni, dalla precarietà del presente e dall’incertezza del futuro.
A partire dai primi decenni del Novecento con l’arrivo di alcune comodità qualcosa è cambiato sulle nostre montagne.
Si propone di seguito un elenco in cui è scandito questo inarrestabile ‘progresso’, che tuttavia, ne siamo consapevoli, ha avuto un suo prezzo.

grammofono

Grammofono – 1919

Il primo fu acquistato da Francesco Matteoni; era un modello della Voce del Padrone, a cassetta e con grande tromba. Il fatto destò scalpore e gli anziani dicevano: ‘Cecco della Stella ha una cassetta con dentro un uomo che parla e canta. Che meraviglia!’.

Acqua corrente in casa – 1926

Per la prima volta fu utilizzata da Aronne Gioffredi in località La Fontanina, a poche decine di metri dal deposito; alle fonti comunali della Piazza, del Pero e di Casa Antonio arrivò tre anni dopo.

Apparecchio radio – 1930

Il primo fu acquistato dal parroco Don Leone Butelli.

Cucina economica – 1932

Comparve per la prima volta nella casa di Annetta Matteoni (dei Mercanti).

Illuminazione elettrica – 1934

In tale anno comparve in 24 abitazioni: molte famiglie furono invece costrette a rinunciare ad essa, risultando le spese per l’allacciamento troppo gravose. In località Torraccia essa fu disponibile solo a partire dal 1965.

Telefono – 1934

In tale data un telefono pubblico fu installato nella “Rivendita di sali e tabacchi” di Diletto Palmieri.

Patente di guida

Il primo a conseguirla fu Anchise Matteoni dei Mercanti.

Motocicletta – 1945

Fece la sua comparsa guidata da Bruno Matteoni, reduce dall’ultima guerra.
Egli giunse a Torri percorrendo sentieri e mulattiere, perché ancora non c’era la strada rotabile.

Fornello a gas, per uso domestico – 1950

Fu utilizzato la prima volta da Fortunato Palmieri.

Macchina da scrivere – 1950

Fortunato Palmieri utilizzò la prima macchina da scrivere da tavolo;
don Matteo Turchi, nello stesso anno, disponeva di un modello portatile.

Televisione – 1955

Il primo apparecchio fu quello di Gino Matteoni, della località La Caà.

Stanza da bagno – 1956

A Torri comparve, per la prima volta, nella abitazione di Guerrino Battistini.

Frigorifero – 1958

Il primo fu quello di Elda Palmieri.

Motosega – 1958

La prima motosega “leggera” che fece la sua apparizione nei nostri boschi fu quella di Iginio Gioffredi dell’Acqua.
Era un modello Dolmar CP e pesava 17 chilogrammi.

Prima automobile – 1959

Fu la FIAT Seicento di Adriana Gioffredi che giunse fino alla Lastruccia, e l’anno successivo nella piazzetta del paese.

Strada tagliafuoco – 1960

Congiungeva Torri alla Badia a Taona ed al Passo della Collina.
Fu il primo collegamento utilizzabile da automezzi per raggiungere Pistoia.

Strada per Lentula- 1965

In tale anno fu aperta al traffico la strada carrozzabile di collegamento con la “provinciale” di fondovalle.

Lavatrice -1969

Margherita Turchi fu così, la prima che rinunciò a lavare i panni nel pubblico lavatoio.

Si va a “ricogliere”!

di FRANCO MATTEONI

Il castagneto del Volotto dista dal paese un quarto d’ora a piedi, percorrendo la mulattiera che da Torri conduce a L’Acqua.

Oggi si deve andare a ricogliere perché le castagne sono cascate quasi tutte sulle roste, già belle pulite come il pavimento di casa. Appena tornato da scuola, ho lanciato la cartella in un angolo del pavimento della cucina, (ho mangiato la refezione preparata dalla Leonetta in classe, nel tegamino di smalto rosso col manico), mi sono levato il grembiule nero e il fiocco azzurro – tutto sgualcito – e sono partito con le mie sorelle, allegro per la novità, con il rastrellino di legno sulla spalla e la sacchetta col cavicchio infilata nella cintura dei pantaloni.

È una bella giornata di fine di ottobre, c’è un bel sole, l’aria, già frizzante, stimola la voglia di correre e saltare. Da pochi giorni ho messo i pantaloni lunghi di lana e sento le gambe belle calde e protette, anche se, rispetto ai calzoni corti, un po’ legano nei movimenti. Le mie sorelle hanno ognuna un rastrello grande, la sacchetta e golfini e gonne di lana. La mamma è già andata nel castagneto per rifinire le roste e bruciare le foglie secche e i cardi. Bisogna sbrigarsi perché il babbo sale da L’Acqua coi muli per caricare le balle piene di castagne e portarle al nostro seccatoio prima che faccia buio. Passando dal Volotto salutiamo Lessio, vestito con giacca e pantaloni di velluto e un cappello nero a falde. Gli chiedo dove sono la Nerina e la Bianchina, lui mi risponde che sono nella stalla a mangiare il fieno; vorrei andare a vedere le due pecore ma non c’è tempo, dobbiamo sbrigarci. Continuiamo a scendere per la mulattiera, passando sotto alla casa e al seccatoio del Volotto.

Guardando sotto strada, vediamo la mamma intenta a rastrellare le foglie e buttarle su un monticello fumante: gli urlo che stiamo arrivando e lei ci saluta sorridendo. Addosso al tronco di un castagno ci sono alcune balle già piene di castagne: ci metto le dita dentro e ne sollevo una brancata: sono belle lucide, alcune scure e piccole, altre grandi e marrone chiaro, altre ancora di un colore rossiccio. Comincio da una rosta dove ci sono tante castagne, mi piego in avanti e le raccolgo con due mani e le butto nella sacchetta che pian piano si gonfia e penzola sempre più pesante tra le gambe; quando è colma fino all’orlo vado svelto verso il castagno dove ci sono le balle e svuoto la sacchetta, poi, correndo, torno alla mia rosta e continuo a raccattarne. Ci sono anche dei cardi semiaperti da cui si affacciano -o si nascondono- le castagne che non sono uscite cadendo: infilo un dito nella fessura ma mi buco e lo tiro via, poi ci riprovo aprendo il cardo col bordo della scarpa. Sento dei tonfi fitti qua e là, tutto intorno: sono i cardi che cascano e li vedo rimbalzare sulla terra mentre le castagne escono. Ora ci sono tanti cardi semiaperti, li batto col dorso del rastrellino per farli aprire del tutto, poi raccolgo le castagne e riempio un’altra sacchetta che corro a vuotare nella balla: voglio battere le mie sorelle. Però è faticoso e ho le dita rosse dalle punture dei cardi e quasi quasi mi fermo a riposare. Al viaggio successivo mi metto a sedere con la schiena contro una balla, la sacchetta ancora piena tra le gambe, appoggiata sul muschio. Ho fame, chiamo le mie sorelle: la merenda è lì, nel tascapane, sopra la balla. Prendo due fette di pane con la frittata di patate dentro e me le mangio con gusto mentre guardo per aria quegli alberi alti, con i rami quasi spogli che si protendono verso il cielo azzurro.

Mi piace il castagneto, in questo periodo è vivo, si sente la gente chiacchierare, qualcuno chiama, una voce di donna stridula prende in giro un uomo provato dalla fatica; qualcuno passa piegato in due dalla pesante balla che porta sulla schiena. Penso che siamo fortunati ad avere i muli che ci portano i sacchi in paese.

Arriva il babbo! Fiorello, il cavallone nero con la stella bianca in fronte, guida la fila dei muli e si ferma vicino ai sacchi. Corro dal babbo che mi chiede quante castagne ho raccolto e io gli faccio vedere la mia balla quasi piena, è contento di vedermi. Tira il cavallo per la cavezza e lo fa avvicinare, poi apre gli ancini incrociati sul basto, la mamma arriva e lo aiuta: mentre lui si piega in avanti e mette la testa e le spalle, quasi fino a toccare terra, contro una balla piena, lei la solleva dall’altro lato finché il babbo ha il sacco sulle spalle. Si dirige verso il basto, scarica la balla di traverso sugli ancini: il basto si abbassa verso terra, il cavallo però se lo aspetta e punta le zampe per non ribaltare. Poi, messa un’altra balla dall’altro lato, il babbo lega con le corde i sacchi al basto. Intanto Gino ha caricato un mulo e il babbo va ad aiutarlo a caricare il secondo mulo. Io osservo le bestie mansuete che aspettano tranquille sgranando le castagne tra i denti gialli e potenti. Vorrei salire sul cavallo, ma è troppo alto per me e mi fa un po’ paura. Per oggi la ricoglitura è finita, prima di buio bisogna arrivare in paese per scaricare i sacchi e riempire il seccatoio. Sono sfinito, sulla salita prima dei Prà inciampo e quasi cado, la mamma e il babbo ridono, le sorelle mi prendono in giro. Intanto i muli salgono sulla ripida salita, ondeggiando i basti e a strattoni; mandano avanti la testa e il collo, come volessero prendere delle brevi rincorse. Fiorello è in testa e procede da solo senza bisogno di essere guidato, conosce la strada a memoria, il babbo sta dietro, ogni tanto affianca un mulo per tirare un canapo o aggiustare un ancino. Finalmente arriviamo in paese, il babbo e Gino scaricano il cavallo e i muli e portano le balle sull’aietta, vicino all’ingresso del seccatoio. Dal buco di una pietra della parete, vicino alla gronda del tetto, esce del fumo grigio: è un sasso scalpellinato a formare un sole, il buco tondo al centro, con dei raggi intorno. Ma il fumo esce anche dalle lastre del tetto e dalla finestra che guarda la piazza, al cui davanzale è appoggiata una scala a pioli in legno. Vedo uno che sale sulla scala portando sulla spalla un corbello colmo di castagne, che regge con un braccio, mentre con l’altro si regge; delle braccia spuntano all’improvviso dalla finestra e prendono il corbello che riappare poco dopo vuoto, l’uomo scende e se ne carica sulla spalla un altro: è un via vai continuo di corbelli pieni e vuoti.

Intanto il cavallo e i muli sono stati scaricati, rifatti i canapi e aggiustati i basti, Fiorello si volta: va verso il lavatoio del Pero, i muli dietro, come carri di un treno: vanno a bere alla pilla, la loro giornata di lavoro, per oggi è finita. Per gli uomini no, continuano a scaricare corbelli nel seccatoio. Scendo a vedere chi c’è dentro: non si vede niente, solo una cappa di fumo che ristagna all’altezza dell’architrave della porta e il bagliore di un fuoco dove bruciano lentamente dei grossi ciocchi di legna di castagno. Entro e sento delle voci, vedo il viso della nonna Annetta illuminato dai deboli bagliori del fuoco, è seduta su una seggiola bassa e sta filando la lana con la rocca, mi chiama e mi dice di entrare. C’è un bel calduccio dentro, però gli occhi mi bruciano, mi lacrimano, devo abbassarmi per non respirare il fumo, mi accosto con la schiena alla parete e vedo altre donne che sferruzzano e chiacchierano. Mi siedo sulla panca e mi scaldo le mani e i piedi.

Sopra le nostre teste si sente un rumore sordo, come uno sfregamento, un rotolìo di castagne. La nonna mi chiede quante ne ho fatte; tante, rispondo. Ora il caniccio sarà quasi pieno. Attizza il fuoco, mi dice la nonna, butta su quell’altro ciocco ché, se si spenge il fuoco, addio bene mio! Esco perché gli occhi mi bruciano troppo: fuori è quasi buio, corro verso la piazza per vedere se c’è qualche ragazzo, ma non c’è nessuno. Fiorello sta tornando dall’abbeverata e, seguito dai muli, scende la breve stradina che porta alla stalla, dove Gino e il babbo stanno aspettando. Gino fa entrare il cavallo nella stalla, gli slaccia il sottopancia e la cinghia davanti; per togliere quella di dietro, a forma di cappio, prende la coda e la tira in alto per liberare la cinghia, poi solleva il basto inarcando la schiena e buttando il corpo all’indietro, si gira e lo posa su un tavolaccio; Fiorello sta fermo, ogni tanto ha come un fremito e nitrisce piano, e batte gli zoccoli sul pavimento, quasi a dire a Gino: sbrigati che voglio andare alla greppia. Intanto il babbo è salito in capanna, lo raggiungo e vedo che prende una forcata abbondante del fieno dal monte – arriva fino al tetto della capanna – e la butta giù nella greppia; poi prende un secchio e comincia a tirare su l’acqua col palmo della mano e con gesti rapidi la butta sul fieno nella greppia, tenendo il secchio tra le gambe lo innaffia in modo uniforme, andando avanti e indietro sul pavimento di tavole: sai mi dice, il fieno umido lo mangiano meglio le bestie. All’improvviso le gambe mi fanno “Diego Diego”. Babbo, sono stanco vado a casa. Ora vengo anch’io, dice.

Mentre trascino le gambe sulla salitina, dalla stalla a casa, penso a come fanno il babbo, quegli uomini e quelle donne, a resistere tutti i giorni a fare dei lavori così faticosi.

Cascina di Spedaletto-Torri-Tabernacolo di Gavigno a piedi o in mountainbike

Cascina di Spedaletto è un nucleo di antichi edifici tradizionalmente usati per finalità agricolo-pastorali: attualmente ospita un Agriturismo ed un posto tappa GEA (Grande Escursione Appenninica).
È posta sul crinale spartiacque appenninico in una pittoresca posizione al centro di una radura circondata da faggi secolari, in provincia di Pistoia ma a poche centinaia di metri dal confine sambucano. Da qui inizia il lungo itinerario proposto che passando per Ponte a Rigoli, Badia a Taona conduce a Torri, incrociando in questa località l’altro itinerario detto “Traversata delle tre Limentre”.
Muovendo dalla Cascina (881m) ci si dirige in direzione Nord, seguendo per circa 800 metri la strada provinciale fino a giungere a Ponte de’ Rigoli (825 m), confine Sud del Comune di Sambuca con Pistoia.
Superato il ponte, giriamo a sinistra (sentiero CAI 9/A) ed imbocchiamo una strada forestale che attraversa luoghi di interesse storico-naturalistico. Si tratta della strada del D’Ancona (così chiamata dal nome del suo costruttore , il fiorentino Giuseppe D’Ancona). Sulla nostra sinistra dopo poche centinaia di metri, un pianoro con alcune pietre sparse, interpretato come il luogo di un insediamento medievale che da recenti studi sembra essere Glozano.
Proseguendo in lieve salita si supera Ponte di Legno (914 m) fino a giungere a Bal di Carnevale (1043 m) dove ad attenderci c’è un’edicola con lapide dedicatoria in cui si legge:VEGLIA O VIANDANTE SUL LUOGO OVE SORSE IL MONASTERO DI SAN SALVATORE DI FONTANA TAONA RISPETTANE LE GLORIOSE VESTIGIA E MEDITA NELL’ALTO SILENZIO SOTTO QUESTI ALBERI ANTICHI LA GRANDEZZA DI DIO. Siamo ormai a pochi metri dalla Badia a Taona: si gira quindi a destra e dopo pochi metri un cartello turistico indica Badia a Taona (1091 m) ed una piccola strada chiusa da una sbarra conduce ai ruderi dell’antico Monastero, che meritano una visita, anche se della originaria struttura rimangono soltanto pietre sparse o riutilizzate per costruzioni successive.
Siamo a 12 Km da Torri. Da questo punto in avanti il nostro itinerario prosegue per la strada sterrata detta ‘tagliafuoco’, la prima strada rotabile che ha raggiunto Torri nel 1959.
Si aggira il Monte La Croce (1318 m), si raggiungono le pendici dell’Orto di Corso (1228 m), dove si dirama un sentiero che segue lo spartiacque fra la Limentrella e la Limentra di Sambuca. Noi seguiamo la strada principale aggirando un ripetitore delle telecomunicazioni alto ben 80 metri: a margine della strada una sorgente dalla quale sgorga acqua freschissima. Nella zona Sambuchella (1172 m), poco a monte della strada e in corrispondenza dell’inserimento del sentiero CAI “E” il Sasso alla Pasqua, con incisioni rupestri .
Proseguendo sempre per la “strada tagliafuoco” si scende verso Pian del Moro (1170 m), una sella dopo la quale la strada riprende a salire: si passa presso una tipica casetta detta De’ Mengarini fino a giugere al Poggio Felicione (1231 m) .
Aggirato Monte Femmina (1091 m) si entra in una zona di crinale denominata Pozze di Brigida (1086 m): di fronte un’ ampia veduta sulla valle della Limentra Orientale, sulle cime del monte Calvi, del poggio Cicialbo, del monte Bucciana.
In breve si raggiunge il Rifugio La Ca’ di Torri (892 m ) gestito dal CAI di Prato, dove ci si può fermare e, previa prenotazione, anche pernottare.
Siamo in vista del paese di Torri. Dal rifugio, si può scegliere se proseguire per la strada rotabile, oppure prendere il sentiero CAI 11A che scende al paese (912 m) in pochi minuti.
Quindi dopo una attenta visita al paese di Torri, dove funziona un esercizio di bar, alimentari, trattoria, si inizia a scendere, o per il sentiero CAI 11 A, molto bello e più breve, oppure per la strada rotabile. Dopo pochi minuti s’incontra la borgata di Casa Antonio (850 m) e percorrendo un breve tratto di strada asfaltata, dopo aver incontrato due tabernacoli, si può scegliere per raggiungere La Ciliegia (810 m) il sentiero oppure la strada.
Raggiunta La Ciliegia, si consiglia di proseguire per la strada sterrata , anche se un po’ più lunga per raggiungere Il Mosca (607 m) e subito dopo Molino di Fossato ( 534 m) in Comune di Cantagallo dove sono ancora attivi due mulini ad acqua per la molitura delle castagne.
Di qui si sale a Fossato (707 m), interessante paese adagiato su un crinale (esercizi di bar, alimentari, ristorante): il percorso continua per strada sterrata (informarsi in loco) o per strada asfaltata fino a raggiungere il crinale al Tabernacolo di Gavigno (968 m). Qui ci si inserisce nel percorso GEA, che avevamo abbandonato alla Cascina di Spedaletto.
Questo itinerario, con alcune varianti, per le sue caratteristiche del fondo stradale, si presta molto bene anche per gli amanti della mountain bike . Il percorso che consigliamo è il seguente: Cascina di Spedaletto, Acquerino, a sinistra in direzione Passo della Collina per ricongiungersi, a Bal Di Carnevale, all’itinerario sopra descritto e proseguire quindi fino a Tabernacolo di Gavigno. La lunghezza di questo tracciato si aggira intorno ai 35 Km.

Buoni camminatori possono percorrere il tracciato in una sola giornata: ma è più indicato percorrere il tracciato a tappe, programmando ad esempio una sosta per la notte al Rifugio La Ca.

Una sera di ottobre

di Franco Matteoni

E’ troppo bello per andare a letto subito.Apro la finestra e la persiana: la notte mi viene incontro amica, e mi affascina.Solo una falce di luna,( gobba a ponente: luna crescente), illumina la natura che riposa; i suoi raggi mi arrivano come rapidi dardi proiettati dalle superfici delle foglie, vibranti sotto la leggera, tiepida brezza notturna.
E irrompe la magìa del silenzio, interrotto solo dai suoni, dai versi della natura: il fruscìo delle foglie, l’urto, (ma come, così forte?), di una foglia secca che cade sulle lastre di pietra; rumore di foglie rotte dal calpestìo di un animale notturno; battito d’ali; il canto di una civetta: ora conto, se canta tre volte porta male: succederà qualcosa di brutto.Sorrido di questa credenza che ho sentito asserita come una verità paurosa fin da bambino.

Come può essere che in questa notte così dolce un piccolo uccello dalle morbide piume e dai grandi occhi possa preannunciare il male? La civetta canta, canta senza fermarsi tre, quattro, cinque volte, ho perso il conto; stanotte il suo è un canto allegro: annuncia che la vita è in corso, anche nel buio.All’improvviso un ruggito di leone riempie lo spazio e lo satura, ogni altro rumore svanisce. Poi un altro diverso, proveniente da un altro punto.Dove sono? Sono forse in Africa?Sono, finalmente, riuscito a raggiungere la mitica Abissinia protagonista dei racconti serali del babbo?
No, sono a pochi chilometri da Pistoia, sono nella casa in cui sono nato; sono appoggiato con i gomiti sul davanzale di pietra scalpellinata della finestra della mia camera.Sono i bramìti dei maschi dei cervi in amore: sono grida d’amore di queste creature che hanno occupato l’ambiente che gli uomini hanno abbandonato perché non hanno più saputo amarlo.Ora sono loro che proclamano alla luna, all’aria agli animali notturni, al bosco, che stanotte è una notte d’amore.

Le case, chiuse, dalle finestre sbarrate da mani frettolose, respingono questi appelli amorosi; il paese è deserto; è iniziato un nuovo, lungo e freddo letargo edilizio; solo tra molti mesi la gente, per un breve periodo, si riapproprierà del giorno e della notte, ma sarà come l’emozione fugace di un’illusione amorosa: la gente non ama più le proprie case, il proprio paese, i propri campi, i boschi, gli animali, la luna e le stelle.Stanotte io, solo, privilegiato, ho aperto la mia finestra e la mia camera, come una cassa acustica vivente, riceve e rimanda lieta i suoni che la natura diffonde senza posa, fiduciosa che qualcuno, prima o poi, li accolga nel suo cuore.

Itinerario TREPPIO, TORRI, PIAN DELLA RASA.

L’ itinerario, è il proseguimento del sentiero CAI 165 che proviene da Case Bettini, che, dopo aver attraversato la Limentra di Sambuca, si avvia ad attraversare la Limentrella e la Limentra Orientale. Per questa caratteristica, i due percorsi collegati insieme si possono anche definire come Traversata delle Valli delle tre Limentre.
Il nostro itinerario, ha origine dalla parte bassa del paese di Treppio (680 m.), in località detta la Piazza, e prosegue in lieve pendenza lungo una mulattiera, in parte interrotta da una strada da esbosco, fino a raggiungere il Ponte del Messi, o Ponte Nuovo (560 m.) sulla Limentrella.

Qui inizia una ripida salita lungo una bella mulattiera selciata, od ammassicciata, costruita veramente a regola d’arte, con alti muri a monte ed a valle per formare stretti, ma funzionali tornanti. Questo percorso, oggi meta turistica, è stato fino agli anni sessanta l’unica via di collegamento fra il paese di Torri e quello di Treppio, dove già nel 1934 fu aperta la strada rotabile. Inoltre a Treppio funzionava un ufficio distaccato del Comune di Sambuca, vi avevano il domicilio il medico condotto e l’ostetrica, ed erano presenti altri servizi di primaria importanza come lo smistamento della posta.
Continuando a salire, si ha una completa visuale sul paese di Treppio, che non ha la tipica conformazione dei paesi montani, ma bensì si presenta a gruppi di case sparse, fra le quali emerge il campanile della chiesa di San Michele Arcangelo. In alto alcuni campetti, piccoli boschi, sopra ai quali spicca il Poggio di Montecuccoli.
Proseguendo si raggiunge Cerro (769 m.) ove ci inseriamo in una strada da esbosco che prendiamo a sinistra. Sulla nostra destra in un pianoro, troviamo isolato un seccatoio o metato, a testimoniare la presenza in loco dell’uomo, del suo lavoro, della sua civiltà in un passato non troppo lontano.
Proseguiamo dunque lungo una strada da esbosco e, superato il Fosso Grande, in pochi minuti si raggiunge la strada asfaltata Lentula-Torri, in località Pianacci (886 m.). Si prosegue a destra per pochi metri , per poi girare nuovamente a destra in un sentiero che in pochi minuti, attraversando l’antica località di Monticelli, (nel Medioevo era qui un centro abitato, documentato fin dall’XI secolo (1056),con chiesa dedicata a San Martino cfr Dizionario Toponomastico del Comune di Sambuca Pistoiese pg 123) della quale è rimasto vivo nella memoria popolare solo il toponimo, conduce nuovamente sulla strada asfaltata, che conduce a Torri (912 m.)
Dopo una accurata visita al paese, si può ultimare la traversata delle tre Limentre, scendendo al Volotto (821 m.), L’Acqua (594 m.) dove attraversiamo la Limentra orientale per risalire al Rifugio Pacini alla Rasa (1001m.), dove ci si ricongiunge con il percorso GEA (grande escursione appenninica).
Per ulteriori particolari in merito all’escursione, si rimanda alla guida di Piero Balletti e Paolo Gioffredi:Le valli della Sambuca .

La “Procaccia” di Torri

di Paolo Gioffredi

Leggiamo sullo Zingarelli: «Procàccia: Chi, spec. un tempo, si incaricava, dietro compenso, di fare commissioni o di trasportare merci, lettere, pacchi da un luogo all’altro».
Anche nella Sambuca esistevano i procaccia: portavano, a piedi, la posta dall’ufficio centrale di Taviano a tutti i paesi del comune.
Era un lavoro duro: si lavorava tutti i giorni compresa la domenica, con qualsiasi tempo e stagione, con il sacco della posta sulle spalle. Era un lavoro anche pericoloso: per tale motivo i procaccia erano obbligati a fare una assicurazione personale.


Da Taviano, la posta veniva trasportata a Treppio, percorrendo una lunga e ripida mulattiera saliva a Caviana: oltrepassato il crinale, nei pressi del luogo ora detto La Memoria, scendeva a Collina, quindi a Treppio. Almeno tre ore di cammino: il procaccia Antonino faceva il tratto Taviano-Treppio due volte al giorno. Di lui si ricorda che gli anni trascorsi a passare il valico della Collina di Treppio avevano lasciato il segno: il gelido vento dell’alpe gli aveva ‘corroso’ le orecchie.

Il servizio di Procaccia fra Taviano e Treppio, terminò a metà degli anni Trenta a seguito dell’ apertura della strada rotabile che collegava il paese della Limentrella con Badi e Taviano ed il successivo arrivo della corriera, che oltre ai passeggeri, trasportava anche il sacco della posta.
Il trasporto a spalla della posta continuò nel tratto compreso fra Treppio e Torri, centri che distano quasi due ore di impegnativo cammino.
Fortunato Palmieri ricorda di aver fatto anche lui questo lavoro: trasportava la posta a Torri ove suo padre Diletto era titolare dell’ufficio postale. Successivamente furono procaccia Rigo Antonini e Ines Matteoni, entrambi di Torri. Quest’ultima ha svolto il srvizio dal 1921 al 1955. Il servizio di procaccia, a piedi, è continuato per Torri fino al 1965.

A Torri, poi, c’era un portalettere.
I meno giovani ricordano Bettina Antonini che distribuiva la posta in tutti centri della valle della Limentra orientale escluso il Monachino, ove il servizio veniva effettuato solo due volte alla settimana.
In quel periodo la corrispondenza era tanta; c’era un fitto scambio di lettere ad esempio fra le famiglie residenti ed i giovani in servizio di leva e i congiunti emigrati in Maremma per lavori stagionali come boscaioli o pastori. Il sacco del procaccia era sempre pieno e molto pesante. Come se non bastasse i torrigiani ordinavano al procaccia l’acquisto di generi vari, non rinvenibili nel loro paese.

Relativamente ad Ines Matteoni il quindicinale “Gente della Montagna”, del 23 giugno 1958 pubblicava un articolo dal titolo: Premiamo l’operosità montana: La postina di Torri: 63.852 Km in 34 anni per servire la collettività. «Questa umile e tenace montanara, benché sia minorata nella vista sin dalla nascita, ha percorso giornalmente 20 Km recando sulle spalle una media di circa 10 Kg tra pacchi, stampe, corrispondenza e generi diversi. Poiché Torri è sprovveduto di telegrafo, di macelleria e di negozi di generi di prima necessità, oltre al compito specifico del recapito della posta, Ines Matteoni, ha provveduto di volta in volta ad avvisare il medico e la levatrice, a portare la carne per gli ammalati, e tante altre incombenze per il bene degli sperduti abitanti del suo paese. Tutti coloro che si sono rivolti a lei hanno sempre avuto quanto era loro necessario, perché la postina non ha mai lesinato in sacrifici. Bagnata, infangata, fradicia di sudore per aver compiuto spesso la mulattiera con la neve sino alle ginocchia, ma lieta di essere utile ai suoi compaesani che oggi la giudicano una donna veramente eccezionale, un simbolo, una creatura di rara umanità».

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E se tra i mille ci fosse un nostro antenato?

di Franco Paoletti

Scorrendo l’elenco ufficiale redatto dal ministero della Guerra, abbiamo trovato, al numero 722, un certo Palmieri Palmiro di Fortunato nato a Montalcino, il 2 marzo1841 e morto in Orbetello il 3 aprile1871. Il Cognome ci ha fatto tornare alla mente i Palmieri di Torri. Chissà se questo Palmieri fosse imparentato con il ramo Torrigiano.
La nostra ricerca nasce dal fatto che a Torri abbiamo Fortunato Palmieri nato nel 1910 ed ancora vivente ed incuriosisce che il nostro Palmiro risulti di Fortunato.
Ci siamo messi a cercare notizie ed una prima traccia sulle sue origini Pistoiesi l’abbiamo trovata negli scritti di Carlo Paiotti, cultore di storia Pistoiese, che scriveva in un articolo del 1960 di essere a conoscenza della presenza, nell’elenco dei 1089 volontari che seguirono Garibaldi, di un altro pistoiese tale Palmieri Palmiro, ma di non saperne di più. Restava però il fatto che quest’uomo era nato a Montalcino. Ci siamo rivolti ad un appassionato studioso di storia di Montalcino chiedendo se questo cognome fosse comune della zona. La risposta è stata negativa, ma contemporaneamente ci ha segnalato la presenza di molti lavoratori stagionali, boscaioli e carbonai di provenienza pistoiese presenti nell’area e ci ha confermato di alcune nascite registrate nel comune di figli di questi lavoranti. Il dubbio rimane, anche se l’amico Michele Piccione di Sori (Ge)ci ha messo a disposizione un libro pubblicato a Genova nel 1876, una cronistoria della spedizione dei mille con annesso elenco circostanziato dei partecipanti, nel quale, sotto il ritratto del nostro Palmiro appare la scritta “Pistoia”.
La nostra ricerca è proseguita consultando persone anziane di Torri e persone che portano il cognome Palmieri, ma non siamo riusciti a trovare una risposta.
Rimaniamo con il nostro dubbio e saremmo grati se qualcuno ci aiutasse a capire chi è veramente Palmiro Palmieri di Fortunato.

Ha cento anni: portò i fuochisti a Milano

di Paolo Gioffredi

Nel mese di novembre 2009 in un pubblico locale della Collina pistoiese si è svolto un festoso evento conviviale. L’ occasione per questo lieto incontro furono i “cento anni” di Fortunato Palmieri, a cui tutti i compaesani, assieme ad Elda, Lia e Marcello, rispettivamente cognata e nipoti, a rappresentanti del Comune di Sambuca e dell’Associazione di Torri, vollero coralmente manifestare la loro simpatia, il loro affetto, la loro riconoscenza.
Negli ultimi venti anni è il secondo centenario che si festeggia per un abitante di Torri: Annina Antonini e Fortunato, a conferma di quanto affermava Palmieri stesso, che «l’aria di Torri fa vivere a lungo».


Fortunato Palmieri nasceva a Torri, in Comune di Sambuca pistoiese, il 27 novembre 1909; era il primo di cinque fratelli: Fernando, Ezio, Ermanno, Romelia.
Trascorse l’ infanzia e la prima giovinezza nel natìo “paesello”, come egli chiama Torri; a venti anni, arruolatosi nel corpo della Guardia di Finanza, emigrò verso Milano.
Nel capoluogo lombardo ebbe modo di conoscere vari impresari, fra i quali Giancarlo Casiraghi, destinato a divenire, nientemeno! il suocero della Principessa Carolina di Monaco.
Poiché per i condomìni milanesi erano necessari degli addetti alla manutenzione delle caldaie di riscaldamento, funzionanti a carbone, Fortunato si assunse con il Casiraghi l’ impegno di procurargli operai abili e volonterosi.

Fu cosi che i torrigiani iniziarono a spostare la loro attività dalle “piazze da carbone” nelle macchie appenniniche, ai mucchi di carbone coke nei palazzi milanesi.
Correva l’anno 1950, quando il primo torrigiano, Ezio Palmieri, accettò la proposta di Fortunato e divenne il primo “fuochista” torrigiano a migrare a Milano. L’ anno successivo sei operai di Torri seguirono le orme di Ezio e negli anni seguenti il numero aumentò fino a superare il centinaio. Fra loro anche giovani provenienti da altre località, quali Treppio e Fossato.

Quello del fuochista era un lavoro duro e faticoso; sei mesi senza ferie, naturalmente, e si lavorava anche nei giorni festivi. Tuttavia questa attività, che si è protratta per una ventina di anni, permetteva a questi migranti stagionali di ottenere una buona paga e di garantire alle loro famiglie un migliore tenore di vita.
Fortunato si sposò con la signora Lina di Chiavenna, località lombarda in provincia di Sondrio: dal matrimonio nacque una figlia, che purtroppo venne a mancare in giovane età. Per onorare la memoria della giovane, Fortunato acquistò un terreno a Torri per edificarvi una scuola per i ragazzi del paese, intitolando la struttura alla figlia Adele Maria Palmieri.
Da alcuni decenni, stante lo spopolamento del paese, la scuola è stata chiusa, ma il fabbricato è stato acquistato dall’Associazione di Torri per farne la propria sede e, più recentemente, un frequentato punto di ristorazione.
Benché la sua vita si svolgesse lontano da Torri, egli fu sempre sensibile ed attento ai problemi del “paesello”. Si è sempre battuto per superare il suo storico isolamento e in ogni occasione evidenziava la necessità di tracciare una strada rotabile di collegamento con il fondovalle. Fu una dura battaglia: ad un certo punto, poiché non si ottenevano risultati, propose perfino la costruzione di una funivia. Forse anche grazie a Fortunato, il paese si può raggiungere oggi con ben tre strade, anche se di fatto solo una è asfaltata ed oggetto di normale manutenzione.

Un’ altra iniziativa da lui promossa fu la costruzione del Vivaio ittico di Ponte a Rigoli all’Acquerino. Ha sempre creduto, già dagli anni Settanta nell’ idea e nella opportunità di un Parco naturale che comprendesse le valli della Limentra orientale e della Limentrella.
Ha sempre proposto e promosso questa possibilità coinvolgendo persone, associazioni ed istituzioni. Dobbiamo sottolineare la lungimiranza di Fortunato, che ha purtroppo perso questa “battaglia” ed oggi ci troviamo così a rinunciare a tutti quei vantaggi, ambientali ed economici, che un Parco avrebbe potuto creare.  È stato attivo nella gestione dello stabilimento Acqua Lentula, che da qualche anno ha chiuso i battenti. Espose i suoi ideali ed i suoi progetti collaborando con giornali e riviste: ne La Nazione, che lo ha definito in questo anniversario « un uomo di altri tempi » in particolare, comparivano spesso scritti aventi come temi il Parco regionale, lo sviluppo della montagna ed in particolare il suo “paesello”.
È stato il principale punto di riferimento per chi volesse conoscere o studiare Torri, la sua storia, la sua lingua, le sue memorie.
Ha collaborato con l’Associazione per lo sviluppo turistico di Torri, ed è sempre stato a fianco di tutti quelli che in qualche modo volessero promuovere le bellezze naturali ed artistiche della montagna, purtroppo ancora afflitta dal grave problema dell’emigrazione.
I suoi punti di riferimento sono sempre stati Torri e la foresta dell’Acquerino.

panificazione

Come si faceva il pane una volta

di Marcella Gioffredi
Tutto cominciava dalla ‘madre del lievito’, ottenuta lasciando di volta in volta un pezzo di pane ancora da cuocere, che veniva fatta riposare in un secchio per il tempo di lievitazione ed alla quale venivano aggiunti: il lievito di birra, sale ed acqua più o meno calda. Il lievito così ottenuto veniva trasferito nella madia e su di esso cadeva la farina passata con lo staccio (‘stacciata’ appunto), che veniva fatto scorrere sulla stecca posta all’interno madia.
Questo momento richiedeva tempo ed energia di braccia, per impastare e rivoltare, impastare e rivoltar a volte anche trenta chili di farina !

panificatrice
panificazione

L’impasto veniva poi passato ‘a bracciate’ sulla spianatoia (tavola bordata su tre lati) per essere tagliato in pezzi.
Con l’aiuto di una mestola di legno, i pani venivano adagiati sulle tavole, (sorta di lunghi e stretti vassoi di legno, bordati, ciascuno dei quali poteva ospitare anche venti pani), ben separati gli uni dagli altri dalle pieghe del telo di lino infarinato che ricopriva il fondo.
Intanto nel forno ardeva un bel fuoco di fascine; ne venivano usate ben tre o quattro per fornata, dipendeva da quanto tempo era passato dall’ultima volta che il forno era stato riscaldato.
Il forno era pronto quando il ‘cielo’ di mattoni cambiava di colore, cioè da nero tornava bianco per l’elevato calore. Seguiva la spazzatura: si toglievano le braci con il tirabrace, un lungo e ricurvo arnese di ferro, quindi con gli spazzatoi si puliva ben bene il piano del forno.
Gli spazzatoi altro non erano che dei bastoni, sufficientemente lunghi da arrivare fino in fondo al forno, ad un’estremità dei quali venivano fissati con una campanella vecchi pantaloni, giubbe smesse o teli di cotone, purchè fossero di stoffa robusta. Per pulire bene il forno era necessario sciacquare gli spazzatoi, in recipienti a portata di mano o meglio in qualche torrentello vicino.

Occorreva quindi sapere se la temperatura era idonea o meno per la cottura del pane: per fare questo non si usavano termometri, bensì un pugno di pasta di pane, che dopo l’aggiunta di un po’ di zucchero veniva stesa sulla pala di legno, cosparsa di olio ed infornata. Il risultato era una schiacciata dorata e profumata.
Questa fase, però, non poteva protrarsi a lungo per non togliere calore al forno e compromettere così la cottura del pane.
I pani venivano passati uno per uno dalle tavole alla mestola tirando con un gesto deciso il telo per le pieghe. Aveva così inizio la messa in forno: dal telo alla mestola, dalla mestola alla pala, già appoggiata alla stretta imboccatura del forno e cosparsa di farina gialla per evitare l’aderenza del pane in lievitazione con il legno. Con la pala si introducevano i pani nel forno tenendola sollevata e sfilandola, dopo, con un rapido movimento all’indietro. La disposizione dei pani richiedeva una certa abilità per impedire che si baciassero tra loro, altrimenti ne sarebbe risultato un pane con la crosta irregolare e ruvida lungo i lati.

Non si poteva riaprire il forno prima di un’ora, ed a quel punto cominciava a spandersi intorno l’inconfondibile odore del pane.
Dalla bocca del forno si affacciavano grossi pani alti e dal bel color biscotto. Per una o due volte veniva controllato che la cottura fosse uniforme, cioè veniva scambiata la posizione dei pani al centro, già cotti, con quella dei pani ai lati. I più erano già cotti ed allora, velocemente perché scottavano, venivano presi in mano uno ad uno e, con uno spazzolino di saggina, privati dei residui di cenere e di farina. I pani, tutti in fila, raffreddavano, poi, sulle tavole, ma stavolta senza teli.
Nel frattempo veniva infornata un’altra decina di pani: quelli che sarebbero divenuti ‘cotti in bianco’, più bassi e più chiari per la temperatura ormai smorzata.
Il calore del forno si manteneva anche dopo questa seconda infornata, tanto che bastava per cuocere dei dolci o per tostare il pane o per asciugare i teli.

In estate era preferibile fare il pane di primo mattino perché con il salire della temperatura si rischiava di ‘farlo passare di lievito’; per il motivo contrario, in inverno, era meglio scegliere la tarda mattinata.
L’intera lavorazione durava circa quattro ore.

Il mi babbo va a scaldare i piedi ai milanesi

di Paolo Gioffredi

Fino agli anni antecedenti l’ultima guerra il territorio del comune di Sambuca Pistoiese ha conosciuto una forte migrazione stagionale; la maggior parte degli uomini si recavano in Maremma, in Sardegna o in Corsica a fare i boscaioli o i carbonai. Nel dopoguerra, principalmente per la diminuita richiesta sui mercati del carbone vegetale, la migrazione stagionale prese una direzione diversa: nei mesi invernali molti, infatti, andarono a fare i “fuochisti” a Milano. Il loro compito era quello di curare il funzionamento delle caldaie per il riscaldamento dei palazzi milanesi.

Il lavoro iniziava alle cinque del mattino: un caffelatte e via in bicicletta per fare il “giro” di controllo ed alimentazione delle caldaie che continuava con brevi pause fino a tarda sera.
Ogni addetto aveva in consegna mediamente quindici caldaie. Il figlio di uno di essi sintetizzò in modo spiritoso questo lavoro con una battuta: “il mi babbo va a scaldare i piedi ai milanesi”.

Questo nuova attività che sostituì quelle tradizionali legate ai lavori nel bosco, nei campi, nei pascoli, ebbe inizio nel 1950 allorquando il torrigiano Ezio Palmieri accettò un incarico di fuochista a Milano, procuratogli dal fratello Fortunato, che a quell’epoca lavorava nel capoluogo lombardo.
L’anno seguente, era il 1951, sei operai di Torri seguirono le orme di Ezio e negli anni immediatamente successivi il loro numero aumentò fino a superare il centinaio. Fra essi anche giovani provenienti da altre località della montagna, quali Treppio e Fossato si dedicarono alla nuova attività.
Il lavoro era faticoso, ma relativamente ben retribuito: nella stagione a Milano si guadagnava di più che in un anno a Torri. Era una vita di sacrifici: i fuochisti dormivano nelle cantine accanto al monte del carbone, in locali senza nessun servizio igienico; il loro lavoro non conosceva festività o turni di riposo, senza contare che essi restavano per sei mesi lontani dalle loro famiglie.
Al ritorno a casa, a fine stagione, si dedicavano alle attività di sempre: il lavoro nei campi e nei castagneti, il governo degli animali, il taglio del bosco.
Fra i tanti torrigiani a Milano c€’erano anche Gianpaolo Tamburini allora quattordicenne, assieme al babbo, Enzo Antonini, Pietro Battistini, Onorio Biolchi e tanti altri
Molti fuochisti erano dipendenti della ditta di Giancarlo Casiraghi, il cui figlio, Stefano, salì all’onore delle cronache nel 1982, quando sposò la principessa Carolina di Monaco.
Questo flusso migratorio è continuato fino alla metà degli anni Sessanta, periodo in cui molti hanno definitivamente abbandonato il loro paese di origine sui monti della Sambuca; erano gli anni del ‘miracolo economico’ e per i fuochisti di Torri iniziava una nuova storia nelle fabbriche di Pistoia e di Prato.
Fu così infatti che Raffaello Gioffredi, fuochista a Milano per 15 anni, nel 1968 dopo aver conseguito la patente di conduttore di caldaie a vapore, si trasferì a Pistoia con la famiglia, continuando a fare il fuochista assieme ad Argante Gioffredi in una azienda tessile pratese.
Era pur sempre una vita dura, ma di positivo, rispetto a quella di Milano, oltre la vicinanza della famiglia, dei parenti e degli amici, c’era anche la vicinanza a Torri, paesello natio.

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